Anteprima Editoriale PM 2-3 2022

Anticipiamo l’editoriale del Presidente Michele Finelli che sarà pubblicato sul Pensiero Mazziniano 2-3 del 2022.


L’Italia vista da Londra

“Britain returns to normal chaos”. Titola così il giornale satirico inglese “Private Eye”, sulla cui prima pagina campeggia una foto del nuovo primo ministro Rishi Sunak, succeduto a Liz Truss dopo i quarantaquattro giorni più bui – Brexit esclusa – della recente storia inglese. L’impatto con Londra, che dopo otto anni torna ad ospitare una iniziativa in presenza dell’AMI, non è stato dunque dei più facili. Il 10 novembre, Giornata Mazziniana della Scuola, l’ennesimo sciopero della metropolitana ha paralizzato la capitale, mentre l’11 novembre hanno incrociato le braccia, per la prima volta dalla sua fondazione, gli infermieri del National Health Service, che Boris Johnson aveva promesso di trasformare nel miglior sistema sanitario al mondo. Tra proclami e realtà, è noto, c’è una distanza abissale. Il Covid ha piegato una sanità che, dopo la Brexit, aveva cominciato a soffrire il rientro nel paese di origine del personale straniero, in larga parte europeo e indiano, che contribuiva a migliorarne la qualità. Assieme, ovviamente, ai corposi finanziamenti provenienti dalla UE. Nel campo della ricerca, ad esempio, il Regno Unito era il primo beneficiario dei contributi di Bruxelles, mentre ancora nel 2020 i cittadini dell’Unione rappresentavano il 9,5% dei medici ospedalieri e dei servizi territoriali ed il 6,4% del personale infermieristico. In questi giorni il personale sanitario chiede un aumento del 17%: un 5% effettivo da aggiungere al 12% di inflazione. Londra sarà un caso a sé, ma sei sterline – circa otto euro – per un cappuccino, un croissant ed una bottiglia d’acqua sono ormai una cifra impegnativa anche per una busta paga d’oltremanica. Non è dunque un caso se il 57% degli inglesi, la percentuale più alta registrata dal 2016, consideri la Brexit un errore fatale.  

Attorno a Tower Bridge lo skyline londinese si arricchisce di grattacieli, ma lo scellerato progetto di Liz Truss di trasformare Londra nel più importante centro finanziario mondiale è durato solo 44 giorni. Il nuovo Cancelliere dello Scacchiere, il conservatore Jeremy Hunt, chiamato a porre rimedio al buco in bilancio da oltre 50 miliardi di sterline lasciato dal governo precedente, ha dichiarato candidamente che la Gran Bretagna ha bisogno di almeno 1,5 milioni di posti di lavoro (che solo manodopera straniera potrebbe coprire) e che con la UE servono “relazioni commerciali più fluide”. È ancora troppo presto per dire se si tratti di una retromarcia vera e propria, ma queste dichiarazioni smontano la retorica cara all’“internazionale sovranista”, costruita sulla lotta all’immigrato che “ruba il lavoro” e sul falso mito dell’autosufficienza economica di un paese.

Per il Regno Unito la pandemia e la guerra in Ucraina hanno rappresentato senza dubbio un colpo ferale ma, almeno per i mazziniani, gli esiti disastrosi della Brexit erano assolutamente prevedibili. Da quando, in cambio della sopravvivenza del suo governo, James Cameron accettò un referendum che erroneamente considerava perdente, concedendo la scena a Nigel Farage: l’emblema del fallimento di una classe dirigente arrogante e incompetente. I sovranismi sono abilissimi nel creare o nel cavalcare i problemi, ma non di risolverli, perché alle sfide globali non si può rispondere con vaghi slogan identitari, soprattutto in presenza, come nel caso inglese, di un’economia fragile e di un tessuto produttivo ormai inesistente. Questo quadro è stato aggravato dalla morte della Regina Elisabetta, ultimo simbolo unificante di un regno che, al netto delle ridondanti memorie del passato, sembra avviato al declino e alla disgregazione, considerate anche le delicate situazioni di Scozia e Nord Irlanda.

Proprio la sufficienza con cui la classe dirigente inglese ha messo a rischio l’integrità del Regno Unito induce a domandarsi se, con l’autonomia differenziata, l’unità nazionale sia messa a rischio anche in Italia. La risposta, visto il progetto di legge presentato dal ministro per gli Affari regionali e l’Autonomia Roberto Calderoli è senza dubbio affermativa. Manca chiarezza, in particolare, all’interno della bozza presentata dal ministro, sui “LEP”, ovvero i livelli essenziali di prestazione, che dovrebbero garantire parità di diritti a tutti i cittadini; se l’essenzialità è basata sulle risorse regionali i vincoli di solidarietà nazionale cadrebbero immediatamente. Ci troveremmo di fronte ad un’autonomia à la carte, con le singole regioni che attingerebbero alle ventitré materie sulle quali è possibile chiedere la “devoluzione” come si trovassero in un self-service: oggi istruzione e sanità, domani ambiente e trasporti, tra una settimana forse beni culturali e protezione civile. Posta in questo modo, l’autonomia è destinata ad accrescere le diseguaglianze poiché favorirebbe le regioni del centro-nord. Se in Lombardia si rendessero necessari più insegnanti, sarebbe sufficiente il varo di un nuovo organico da parte della regione, con buona pace di quelle che non sono in grado di farlo. Ma non solo. Con l’autonomia sarebbero gli assessori ad orientare le carriere, le retribuzioni e le sedi dei docenti, trasformando l’istruzione in strumento di consenso. Non è casuale che i governatori del Sud, indipendentemente dallo schieramento politico, abbiano ritenuto irricevibile il progetto, promettendo battaglia. Così come il “Coordinamento per la Democrazia Costituzionale” guidato dal professor Massimo Villone, che ha da poco presentato una proposta di legge di iniziativa popolare per evitare “una frantumazione non reversibile del Paese”. Attraverso alcune modifiche agli articoli 116 e 117 gli estensori della proposta mirano ad introdurre una “clausola di supremazia della legge statale, affidando allo Stato la potestà legislativa su alcune materie cruciali come sanità, scuola, lavoro, coordinamento della finanza pubblica, reti di trasporto e comunicazione”. Il progetto prevede inoltre la sostituzione dei “livelli essenziali di prestazione” con “livelli uniformi di prestazione” su tutto il territorio nazionale e per tutti i cittadini. L’unità del paese resta per i mazziniani principio sacro e intangibile, ragion per cui la proposta del “Coordinamento per la Democrazia Costituzionale” è degno, a mio parere, oltre al plauso del sostegno dell’Associazione. Sul tema dell’autonomia è auspicabile anche un degno passaggio parlamentare, considerato che il partito che guida la maggioranza negli ultimi tre anni in particolare ha lamentato la mortificazione di Camera e Senato.

Londra è un mondo a sé stante, diversa da Manchester e Liverpool o dalla campagna inglese, ma proprio per questo accentua i limiti della Brexit e dei sovranismi. La prima vetrina in cui ci si imbatte usciti dalla metropolitana a South Kensington è un muro di confezioni di biscotti italiani e francesi, accessibili a poche tasche, mentre i corrieri consegnano ventiquattro ore su ventiquattro pacchi e cibi da asporto. In questo non è affatto diversa da Napoli o da Pisa, dove fuori dalla stazione centrale si raggruppano nelle poche pause a disposizione i riders, in gran parte immigrati. Per quanto si vogliano costruire muri, la globalizzazione continuerà a porre problemi sempre più universali, come le crescenti diseguaglianze – anche all’interno del mondo industrializzato – e la regressione dei diritti politici e civili, barattati sovente con l’illusione di un finto benessere. Ed è in questo mondo multipolare, così diverso da quello auspicato da Mazzini, che la nostra Associazione Mazziniana si avvia a ricordare i suoi ottant’anni di vita. Oggi, come nel 1943, a fianco di un progetto di democrazia universale, vicina alle donne ucraine ed e a quelle iraniane perché, come scrisse Mazzini nei Doveri dell’Uomo “dovunque un uomo soffre, tormentato dall’errore, dall’ingiustizia, dalla tirannide, ivi è un vostro fratello”.